di Laura Galli
La Comunità internazionale si è dedicata solo recentemente al problema ambiente, creando un tessuto normativo composto da Convenzioni, principi generali e prassi consuetudinarie volte a realizzare delle sinergie tra i vari Stati. La convenzione di maggior rilievo, a livello internazionale, è quella di Rio De Janeiro del 1992, la quale contiene un importante principio che è quello relativo al divieto di inquinamento transfrontaliero, comprendente anche i corsi d’acqua internazionali. La citata Convenzione introduce anche principi quali il principio di precauzione, di cooperazione tra gli Stati e il principio “chi inquina paga”, per cui l’autore di un danno all’ambiente è tenuto a risarcire i soggetti danneggiati. In questo senso, la responsabilità è distribuita tra soggetti statali, quali appunto gli Stati e le organizzazioni internazionali e soggetti non statali, quali, ad esempio, le OING e le imprese multinazionali, la cui partecipazione al problema ambiente è strategica, tanto da aver assunto diritti e obblighi precisi, come visto nel paragrafo precedente, pur non potendosi ancora parlare di soggetti di diritto internazionale veri e propri.
In particolare, riguardo alla tutela dell’ambiente marino, l’obbligo di protezione è contenuto nella Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 sul diritto del mare (artt.192 ss.), quindi antecedente alla Convenzione di Rio De Janeiro, che impone agli Stati di adottare tutte le misure idonee e necessarie nel proprio ambito di sovranità per evitare il verificarsi di fenomeni di inquinamento a seguito di incidenti marittimi che provochino danni ad altri Stati nell’ambito della sovranità di questi ultimi.
A tal fine, agli Stati è demandato il compito di adottare sia a livello internazionale che nazionale regole uniformi che mirino a prevenire, contenere e controllare l’inquinamento marino.
A livello internazionale, particolare disciplina è contenuta nella Convenzione di Bruxelles del 29 novembre 1969 sull’inquinamento da idrocarburi (CLC), in virtù della quale gli Stati contraenti e aderenti a tale Convenzione potranno adottare, in alto mare, le misure che sono necessarie a prevenire, attenuare o eliminare i pericoli e i rischi connessi che derivino ai loro litorali da inquinamento da idrocarburi, trasportati come carico o come combustibile a bordo, in seguito a sinistro marittimo. Tali misure, dispone la Convenzione, debbono essere connotate da proporzionalità e ragionevolezza in ordine alle probabilità del verificarsi del danno e dell’efficacia degli interventi adottati. La responsabilità del proprietario della nave ha natura oggettiva, rispondendo egli anche per gli altri soggetti che a vario titolo hanno contribuito all’evento dannoso. Eccezioni a tale tipo di responsabilità sono previste in caso di a) eventi bellici o fenomeni naturali aventi natura di forza maggiore, b) fatto doloso di terzi, c) colpa delle autorità preposte al mantenimento di fari o altri strumenti di aiuto alla navigazione, ad esempio carte nautiche che debbono essere sempre aggiornate, d) concorso di colpa del danneggiato per cui è esclusa o notevolmente diminuita la responsabilità del proprietario. Il sistema di responsabilità previsto dalla CLC prevede che i proprietari delle navi cisterna abbiano l’obbligo di dotarsi di copertura assicurativa, obbligo che viene certificato dallo Stato di immatricolazione della nave..
Ma cosa si intende per danno risarcibile? La Convenzione CLC fornisce un’ampia nozione consistente non solo nella perdita o danno al di fuori della nave di idrocarburi ma anche nel costo delle misure volte a prevenire o ridurre il danno connesso, c.d. misure preventive. Tali misure possono essere indennizzabili quando abbiano avuto lo scopo di evitare o circoscrivere gli effetti dannosi dell’inquinamento e siano state adottate con i criteri suddetti di ragionevolezza e proporzionalità dopo il verificarsi di un incidente o di un grave e imminente pericolo di inquinamento
Dunque, il danno risarcibile comprende il danno sofferto a seguito della perdita di un bene o del suo danneggiamento, nonché le spese incorse per la pulizia o la riparazione di beni contaminati da idrocarburi. Sono stati ritenuti risarcibili, ad esempio, le spese sostenute per la sostituzione di attrezzature da pesca danneggiate dall’inquinamento così come i danni di natura psichica, quali stress, ansia, depressione provocati dall’evento inquinante. Anche i danni da lucro cessante sono considerati risarcibili, ad esempio, il danno subito da un albergatore in conseguenza della temporanea chiusura del suo esercizio per consentire di liberare la strada di accesso dallo strato di idrocarburi che ivi si era depositato.
Ancor più problematico appare, invece, il risarcimento del c.d. danno ambientale, cioè il danno all’ambiente inteso quale risorsa naturale a prescindere da qualsiasi aspetto o utilità economica. Secondo un orientamento d’oltreoceano, il danno risarcibile è corrispondente a quello per le spese sostenute per la realizzazione di un piano di risanamento ecologico. La giurisprudenza italiana, invece, prende spunto dalla nozione di ambiente contenuta nella L.349/1986, quale risorsa naturale, habitat naturale dell’uomo che ivi vive e agisce e dove si esprime la qualità della vita umana. In questo senso, ancorché sia astrattamente concepibile come bene suscettibile di valutazione patrimoniale, la lesione ad esso provocata è risarcibile indipendentemente da un effettivo esborso o spesa, ritenendo che la perdita economica sia già consistente in una minor fruibilità delle risorse naturali da parte della collettività per via della lesione suddetta. In ogni caso, il Protocollo del 1992 allegato alla Convenzione CLC ha ritenuto risarcibile il danno ambientale nei limiti dei costi sostenuti per il ripristino dell’ambiente compromesso dall’inquinamento.
A livello nazionale, il legislatore italiano è intervenuto dapprima con le L. 979/1989 e 220/1992 (Interventi per la Difesa del mare) e, successivamente, con la L. 349/1986, già ricordata sopra, istitutiva del Ministero dell’Ambiente e la L. 152/2006, c.d. “Codice dell’Ambiente”. Con la normativa da ultimo citata, il concetto di “difesa del mare” assume connotati molto ampi comprendendo in sé non solo la tutela dell’ambiente marino ma anche le attività marittime ed economiche ad esso connesso. La responsabilità di garantire un intervento immediato volto alla difesa del mare è demandata, ai sensi della L. 979/1982, a carico del comandante, dell’armatore o del proprietario della nave o del responsabile di impianti suscettibili di arrecare danno all’ambiente marino, attraverso l’impiego di idrocarburi o altre sostanze nocive o inquinanti, prevedendo la facoltà per l’Autorità Marittima di intervenire in sostituzione degli inadempienti, dopo aver proceduto a diffida a carico degli stessi per adottare tutte le misure ritenute idonee a prevenire il pericolo dell’inquinamento o a eliminare i danni già prodotti. Anche tale tipo di responsabilità, come giurisprudenza maggioritaria ha sostenuto, è di natura oggettiva, riguardando non solo il fatto proprio ma anche il fatto altrui (commesso, ad esempio, da preposti).
Riguardo ai profili di responsabilità, si è già detto sulla natura oggettiva di tale responsabilità, nonostante la disciplina prevista dal diritto statunitense e quello comunitario sia differente. La prima è più rigorosa della seconda ed è normativizzata dalla Oil Pollution Act (OPA), una legge federale emanata nel 1990. Essa contempla una serie di soggetti responsabili che vanno dal proprietario della nave, all’operatore e al conduttore a scafo nudo, di fatto allargandone il numero, così come amplia il concetto di danno risarcibile ricomprendendo anche il danno sofferto da privati (e non soltanto dall’intera collettività) per la minor fruibilità delle risorse naturali. Anche i limiti quantitativi di risarcimento sono nettamente più elevati, a partire dalla copertura assicurativa che per le navi che trasportano idrocarburi e che navigano nelle acque territoriali statunitensi deve essere di importo pari al limite di responsabilità.
Anche a livello comunitario, tuttavia, l’evoluzione della disciplina si è indirizzata verso un inasprimento delle misure preventive per la sicurezza della navigazione marittima e per la tutela dell’ambiente marino. Tale disciplina, in particolare, ha previsto l’adozione di tre c.d. pacchetti normativi, il cui nome origina dalla nave protagonista dei sinistri che hanno poi condotto all’adozione di tali provvedimenti, ovvero Erika I, Erika II, Erika III.
Il primo pacchetto contiene sostanzialmente norme riguardanti l’ispezione e il controllo delle navi, il secondo è diretto alla realizzazione di un sistema di monitoraggio del traffico navale e alla creazione di un’Agenzia europea per la sicurezza marittima. Con il terzo pacchetto, invece, sono state emanate norme ulteriori riguardanti ispezioni, visite e controllo sulle navi, monitoraggio del traffico marittimo, inchieste sui sinistri marittimi.
L’opera normativa iniziata a livello comunitario per la sicurezza della navigazione e tutela dell’ambiente marino continua con la Direttiva 2005/05/CE con la quale vengono adottate sanzioni penali importanti per la repressione di scarichi di sostanze inquinanti da navi. A tal proposito, la Corte di Giustizia, con la sentenza 24 giugno 2008 (causa C-188/07), ha stabilito che idrocarburi accidentalmente sversati in mare, in seguito a naufragio, che si miscelino con acqua e sedimenti, non più sfruttabili commercialmente che vadano alla deriva verso le coste di uno Stato membro, siano da considerare “rifiuti” tali da imporre al venditore del prodotto e al noleggiatore della nave di sopportarne i costi per il relativo smaltimento.
La pronuncia della Corte di Giustizia nasce dalla necessità di regolamentare lo sversamento in mare di sostanze inquinanti, sia volontario che accidentale, a seguito dell’aumento del traffico marittimo, in particolare di quello mercantile.
Nel paper di mia pubblicazione “ sull’attribuzione di competenze in materia di rifiuti prodotti da navi e residui del carico” in Nota a sentenza Corte Costituzionale n. 187 del 15 giugno 2011, (Diritto Marittimo 2013, fasc. III) , fatta una premessa dei fatti sulla necessità di ripartire le funzioni tra Stato, Regioni ed Enti territoriali, esamino l’iter legislativo internazionale e nazionale circa la soluzione per gli sversamenti in mare.
La regolamentazione internazionale ha subìto una spinta decisiva a seguito del disastro della Torrey Canyon, all’epoca della quale l’unica normativa in materia era rappresentata dalla Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi (Oilpol 1954), giudicata da più parti inadeguata.
In sede IMO fu, dunque, avvertita la necessità di stabilire regole più severe e uniformi per la prevenzione dell’inquinamento marino causato da navi con l’adozione della Convenzione Marpol (73/78), che rimane, a livello internazionale, ancora la più importante regolamentazione in vigore nella materia, di cui il V annesso disciplina i rifiuti prodotti a bordo e le operazioni di carico e scarico. Essa ha il pregio, rispetto alla precedente Convenzione del 1954, di estendere la regolamentazione a tutte le possibili sostanze inquinanti e a spazi marini più ampi, rafforzando anche i poteri ispettivi dello Stato del porto di riferimento .
La Marpol si pone l’obiettivo da un lato di eliminare l’inquinamento intenzionale, dall’altro di ridurre lo sversamento accidentale, operando, dunque, una distinzione netta tra lo sversamento che sia conseguenza di una deliberata decisione (operational discharge) e quello accidentale (accidental); il primo sempre proibito, il secondo tollerato secondo precisi parametri e ricorrendo specifiche condizioni. Ciò ha comportato non poche problematiche in ordine al connubio tra il divieto generale di inquinare con quello di scriminare il fatto colposo o accidentale. Essa detta le regole a cui gli Stati debbono attenersi nella prevenzione e repressione dell’inquinamento marino e riconosce agli stessi un potere sanzionatorio e giurisdizionale non solo nei confronti delle proprie navi ma altresì nei confronti di una zona di mare che va oltre il mare territoriale, c.d. zona economica esclusiva; potere che deve essere esercitato in modo compatibile con le previsioni della Convenzione stessa .
Sempre a livello internazionale, l’obiettivo di prevenire l’inquinamento dei mari ha condotto all’adozione, nel 2004, della Convenzione internazionale per il controllo e la gestione delle acque di zavorra delle navi e dei relativi sedimenti avente la finalità di prevenire l’introduzione, attraverso lo scarico delle acque di zavorra, di organismi estranei ad altri ecosistemi marini e, pertanto, assolutamente nocivi per l’ambiente, rendendo gradualmente obbligatorio il trattamento delle acque di zavorra a bordo delle navi. Strumento di attuazione è un sistema di certificazione e ispezione delle navi, con l’obbligo di redazione e aggiornamento di un registro sulle acque di zavorra a bordo delle stesse in modo da poter controllare il trattamento e le ragioni di un eventuale sversamento di sostanze inquinanti. Tale sistema di documentazione sembra trovare un proprio riferimento, per le navi italiane, nell’art.160 cod.nav. che disciplina la tenuta dei documenti obbligatori a bordo, tra cui il registro degli idrocarburi in cui vengono annotate le operazioni di pulizia delle cisterne, discarico e sversamenti accidentali di idrocarburi .
Anche l’Unione Europea dopo i disastri Erika e Prestige appronta una serie di proposte finalizzate ad una migliore prevenzione degli incidenti come quelli citati ampliando o integrando in misura significativa la normativa internazionale IMO. Tra le Direttive, emerge la Direttiva relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi e i residui del carico n. 2000/59/CE, attuata nel nostro ordinamento con il Dlgs. 24 giugno 2003 n. 182, il quale riveste una significativa importanza in quanto rappresenta una normativa di raccordo tra la Convenzione Marpol 73/78 e la normativa in materia di ambiente. L’obiettivo dell’intero corpo normativo è quello di ridurre gli scarichi in mare, in particolare quelli illeciti, dei rifiuti stessi e dei residui del carico prodotti dalle navi, nonché di migliorare la disponibilità e l’utilizzo degli impianti portuali di raccolta dei suddetti rifiuti e residui, definiti dal Dlgs 182/2003 come le sostanze, comprese le acque reflue e i residui diversi dai residui del carico, ivi comprese le acque di sentina, prodotte a bordo di una nave, nonché i rifiuti associati al carico a cui si applica l’annesso V della Marpol. La nozione di rifiuto, così come citata, è stata recepita e richiamata in toto dal T.U. sull’ambiente, Dlgs. n. 152 del 3 aprile 2006, all’art.183 comma primo lett.a) per il quale è rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.